Violenza sulle donne: quando le botte diventano parte integrante di un ruolo
Capita che sei a casa e che parta un giro di WhatsApp tra amici: “Dove sei? Cosa fai? Vieni da me?” e ti ritrovi a imbastire una tavola accogliente e bicchieri vuoti da riempire di chiacchiere shakerate ad alcol.
Nella casa sull’albero dove vivo, insieme agli amici, arriva anche una ragazza italiana, mezza australiana, che vive in Messico.
Comincia a schiacciare le basi per dei mojito e mentre l’odore che sprigiona dalle foglie di menta mi riempie di verde, la ragazza italiana, mezza australiana, che vive in Messico, dice che lì fa l’assistente sociale per donne messicane in difficoltà e che, è questo quello che mi dice, le sembra che in Italia le donne se la passino notevolmente peggio.
Dice che lì, in Messico, ci sono tanti problemi per le donne, alcuni molto gravi, che è raro non si accompagnino a un uomo indolente, fedifrago e violento. Ma in Messico almeno ci sono i ruoli, dice.
Ho bevuto il mojito, ne ho bevuti anche due e, sebbene quelle dichiarazioni mi avessero scossa, lì per lì le ho dato ragione: la donna in Italia sta peggio, divisa tra dover eccellere negli studi, nel lavoro, nella vita matrimoniale e in quella di madre senza la possibilità di rinunciare a nessuno di questi ruoli se non con sensi di colpa atroci. Se ne manca solo uno vuol dire che c’hai qualcosa che non va.
E allora vanno in psicanalisi, che qualcosa si rompe e spesso ci vanno da sole, benché la crisi di coppia avvenga quando si è in due, sbaglio? Eppure le storie che sento vedono sempre un uomo che non si mette in discussione, che si sente apposto nel mondo così com’è. Fermo, trincerato dietro le false cortine delle sue convinzioni.
E mentre la ragazza italiana, mezza australiana, che vive in Messico facendo l’assistente sociale per il sostegno delle donne, pesta lime, zucchero di canna e menta, mi viene in mente che, troppo spesso, mi è capitato di raccogliere le testimonianze di donne che vengono mortificate al lavoro, dal compagno e anche dai figli. A loro volta pestate con parole dure come schiaffi, insulti tanti come squame di serpente, pugni forti come anestetizzanti. E tutto si deposita nel tempo e, neanche te ne accorgi, quelle violenze si son stratificate fino a togliere spazio all’anima.
Viste dall’esterno le botte son facili e ti vien naturale urlare “Scappa, corri, cosa stai con lui a fare?”.
E loro, quelle che le prendono le botte senza neanche avere il tempo di vederle, ti guardano calme e ti danno delle risposte precise, che sanno di giustificazioni:
“Sai lui ha avuto un’infanzia difficile. Subiva violenze in casa. Io lo capisco.”
“È un padre eccezionale. Ai miei figli non fa mancare nulla.”
“Rimango con lui per non privare i bambini di un’importante figura di riferimento.”
“Forse nella mia vita è giusto che io porti una croce.”
“Davanti ai bambini non mi ha mai picchiata. Cioè, solo una volta e sono finita all’ospedale ma on l’ha più rifatto in loro presenza.”
Sono frasi che mi sono sentita dire e le scrivo perché leggerle fanno un altro effetto e posso rileggerle, soprattutto. E penso alla donna, istruita o meno, indipendente economicamente o meno, di questo paese o di un altro, cosa importa? Penso a questa donna del 2013 che le botte, le violenze psicologiche le sente ancora come parte integrante di un ruolo.
E poi quel momento terribile in cui, finite le risposte da dare alle mie domande, finite anche le giustificazioni, quando la calma apparente comincia a vacillare, quando è il momento di andarsene da quella vita, da lui, e lo sai e te lo stai per dire e invece niente, scegli di far cadere tutto a terra e andartene via da me che, me lo dicono i tuoi occhi, ti ho fatto un po’ violenza anch’io, che stavo per farti dire cosa sarebbe meglio per tutti, figli compresi.
Mi dico allora che non è dato sapere quali tappe siano scritte nel percorso di quelle donne e mi torna la fede, forte, nel Creato.
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