Fenomenologia della scuola che fa fiorire le parole

25 Febbraio 2016
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Sarah Bernhardt
Il mio prof. di matematica delle medie si chiamava Corradini ed era una persona disturbata.
Ma quel genere di disturbo che lo leggi a pagina taluna del tomo talaltro.
Quel genere di disturbo che dovrebbe escludere dall’avere a che fare con giovani menti, specie se si tratta di menti che vivono il medioevo dell’esistenza umana di chiunque ovvero gli anni delle scuole medie.
Ecco, quel prof. delle medie disturbato ce l’aveva con me e con un altro mio compagno per una semplice ragione: eravamo del segno dei Gemelli.
Ce lo disse pubblicamente, una volta, a lezione.
Quindi niente, ci umiliava in ogni modo, appena poteva, con frasi tese a ridicolizzarci, con interrogazioni castranti dove ci sbraitava il suo disprezzo, sputacchiando frustrazione a due centimetri dalle nostre facce.
Nessuno dei miei compagni rideva di questo. Ricordo il terrore e l’empatia per il malcapitato di turno che tutti provavamo. Ricordo la sua instabilità e come riuscivo a intuire come sarebbe andata la lezione solo dal suo incedere dalla porta alla cattedra.
Nessuno di noi si lamentava, con nessuno. Forse perché pensavamo fosse giusto così, in fondo.
In quegli anni dove prima si dava ragione agli insegnanti e poi, eventualmente, si ascoltava cosa aveva da dire il bambino, era giusto così e un po’ era saggio pensarla a quella maniera. Nella vita fuori dalla scuola non c’è nessuno che ti difende quando qualche capo con le vene strozzate ti fa una piazzata senza ragione. Tanto vale saperlo da subito.
Ricordo poco di quegli anni di personalissimo medioevo dell’Inquisizione e questa rimozione la devo anche a Corradini, certamente.
Fortunatamente avevo un altro insegnante che era il suo contrappunto: si chiamava Cagnin ed era il prof. di lettere.
Lui mi dava quella fiducia che l’altro mi toglieva. Mi faceva sentire capita, leggeva ad alta voce, compiacendosene, i miei temi liberi (sceglievo sempre il tema libero). Cagnin aspettava la fine delle lezioni per chiedermi perché avessi scritto quella frase o quel pensiero, cercava un confronto, mi trattava da essere pensante e poi, quando mancavano cinque minuti al suono della campanella, faceva un gioco bellissimo utilizzando il dizionario. Testo che, per inciso, amavo leggere appena mi era possibile.
All’epoca in cui era il mio prof. probabilmente aveva i miei stessi anni di ora. Anche l’altro coglione li aveva.
Pensando alla faccenda della maestra che ha segnalato petaloso come nuova parola italiana all’Accademia della Crusca e a loro due, i miei Yin e Yang dell’insegnamento, mi chiedo cosa possa fare, oggi, la scuola, per migliorare il rapporto insegnanti/alunni.
Mi viene da dire che dovrebbe portare il dentro fuori e non solo il contrario, forse.
Far scoprire il mondo al di là delle teorie e dei libri e dei dati che, certamente vanno fatti entrare nella mente e nella sensibilità di ognuno, è cosa buona e giusta. Ma, ecco, del tempo dove si insegni a esternare il dentro verso il fuori?
Dove si insegni a uscire per osservare il mondo?
Dove si allenino le giovani menti a indagare il proprio dentro senza paura ma con la volontà di sviluppare consapevolezza e, a farla grassa, autocritica costruttiva?
E quindi niente, petaloso è stata strumentalizzata subito, con quell’instant advertising affamato di contenuti che vede nella parola nata da un bambino un’opportunità di vendita.
Ma a me piace pensare che quel bimbo, Matteo, abbia tirato fuori il suo dentro e che una maestra se ne sia accorta.