Le gatte morte, maestre di vita
Ho sempre un po’ invidiato le gatte morte.
Lo ammetto con limpida autocritica. Sono un po’ cagna in questo e anche tu lo sei.
Del resto l’invidia è un sentimento che fa parte dell’umana specie e, in quanto tale, va accettato come espressione del desiderio di possedere lo stesso bene di altri.
Ecco, delle gatte morte invidio quella sorta di corazza di pane carasau che non smettono mai di indossare e che le fa sembrare sempre un po’ come Kate Winslet sulla zattera del Titanic, anche quando devono cambiare la lampadina del bagno.
Invidio quella luce di sepolcro che emerge dall’occhio sempre un po’ velato di tristezza e che le rende deliziosamente scontente di tutto o, comunque, mai completamente contente.
Anche tu vorresti essere salvata ma la differenza fondamentale è che non lo permetti. Anche tu vorresti un uomo che non sa più come viziarti per farti felice ma la grave colpa è che sei felice anche se ti portano nella peggior trattoria priva di controlli HACCP dal 1948.
Fossi Kate, faresti così tante storie nell’accettare quel nobile gesto di salvataggio, che il Leonardo di turno ti ci mollerebbe tempo zero negli abissi. Per sfinimento.
Tu le lampadine del bagno te le cambi da sola. La gatta morta lo lascia fare a un uomo che la venera.
Tu, se non sei single, hai recuperato una cozza d’uomo che non alza un dito manco per metterselo nel naso. La gatta morta non ha mai immaginato nella sua vita di dover fare qualcosa al posto di qualcun altro se non ciò che le piace.
Allora io dico provaci, lasciati salvare, abbandona la veste della prima della classe che deve dimostrare al mondo d’essere indipendente, intraprendente, evoluta, rimani l’Amazzone che sei anche se permetti all’uomo di vivere il suo maschile proteggendoti.
Tranquilla che non corri il rischio di diventare gatta morta, ci si nasce così.
Semmai puoi ambire a essere una cagna viva che, voglio dire, è o non è una categoria molto più interessante?
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